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Cose nuove e cose antiche

Cose nuove e cose antiche

Trarre dal proprio tesoro cose nuove e cose antiche: questo ci sembra compito urgente oggi per la vita religiosa, in particolare contemplativa, per rispondere all’appello del Signore nelle mutate condizioni dei tempi.

Il testo che vogliamo proporre oggi è di madre Cristiana Piccardo.

Madre Cristiana Piccardo (Rita) è nata a Genova nel 1925. Determinante per la sua formazione e per la sua passione ecclesiale fu l’impegno in Azione Cattolica negli anni 50 (delegata nazionale per le giovanissime)

Riteniamo che il rinnovamento operato da madre Cristiana nel suo monastero di Vitorchiano (Trappiste, ovvero Cistercensi della Stretta Osservanza), che dal 1969 ad oggi ha dato l’avvio a un movimento di nuove fondazioni non ancora esaurito, sia un segno un po’ fuori dell’ordinario di questa possibilità di dare nuovo impulso e vita a un Ordine monastico, per quanto vetusto possa essere – in questo caso di 900 anni. Entrata nel monastero Cistercense Trappista di Vitorchiano nel 1958, badessa nel 1964, ha guidato la comunità per ventiquattro anni e ha dato vita a cinque fondazioni in diversi continenti. L’instancabile tensione pedagogica, l’accoglienza delle generazioni che si susseguono nella ricerca di Dio e del senso della propria esistenza, una indomabile fiducia nell’uomo sono le coordinate dell’esperienza monastica trasmessa alla sua comunità e che si riflette nei suoi scritti. Dal 1991 al 2002 è stata badessa nel monastero di Humocaro, in Venezuela, dove attualmente vive.

Questo testo, Educare all’amore, è una viva sintesi della più pura spiritualità cistercense del XII secolo, filtrata da un cuore di donna del XX che, dopo le devastazioni delle grandi guerre ha percorso con passione umana e cristiana il cammino di una rinascita ecclesiale. La sua esperienza di movimento giovanile l’ha segnata, arricchendola di una capacità di ascolto profondo. Lo Spirito l’ha condotta prima attraverso l’esperienza di una Trappa tutta da rinnovare ma portatrice di un tesoro nascosto; poi lungo gli anni conciliari, che ha vissuto sempre nell’ ascolto, riuscendo a cogliere il nuovo senza perdere il tesoro dell’eredità antica, anzi, meglio conoscendola. La sua guida ha segnato profondamente il povero e ricco humus della sua comunità monastica, rendendolo inimmaginabilmente fecondo. É ancora possibile!

Educare all’amore

4. Il cammino pedagogico

È molto utile prendere coscienza, per una sana educazione dell’affettività, di alcune realtà in sé banali e, probabilmente, comuni a molte comunità monastiche o religiose, ma preziose, perché aiutano a individuare il cammino da compiere.

Ripensando al cammino della nostra comunità noi stesse possiamo ripetere il felix culpa agostiniano tentando qui, a distanza di tempo, di definirlo.

La prima realtà da superare, vero impedimento al cammino affettivo, è la mancanza di coesione interna e di unità di giudizio nella comunità, spesso causate da un fermarsi, nei rapporti fraterni, a un livello superficiale, da un’inclinazione alla critica non costruttiva, dalla mormorazione. Sappiamo come san Benedetto condanni il vizio della mormorazione, che egli considera fonte della divisione comunitaria e della frattura irriducibile di ogni coesione fraterna. Al contrario, solo una vera unità comunitaria, l’esistenza di una visione comune ricercata costantemente con passione attraverso il dialogo e la rinuncia all’individualismo egoistico, l’amore alla propria comunità e a ogni sorella nella verità e nel perdono; soprattutto la coesione attorno all’autorità e l’affezione autentica e matura a chi per noi rappresenta Cristo rendono possibile una sana crescita dell’affettività.

Particolarmente importante all’interno della coesione comunitaria, e come sua verifica, è il cordiale e fiducioso riconoscimento tra le persone più vicine a livello «generazionale», quelle con le quali si è entra te in monastero o si sono condivise le stesse tappe formative. Quando questo non nasce, l’esperienza ci insegna che difficilmente si vive un’integrazione positiva, cordiale e fedele con l’intera comunità, e facilmente si costruisce un piccolo clan di relazioni basate su dubbie affinità o su alleanze equivoche.

La fragilità affettiva della relazione all’interno della comunità porta fatalmente a risolvere i problemi della propria vita e della stessa casa all’esterno della propria comunità, con persone al di fuori della realtà della convivenza: confessori, direttori spirituali, amici, finanche la propria famiglia di origine, a cui ci si permette di chiedere tutto e tutto comunicare. La comunità non è più l’ambito da cui si riceve la vita e a cui la persona si riferisce. Anzi, la ricerca di una verità dei comportamenti personali e comunitari attraverso la verifica con l’autorità può venire interpretata come forzatura della coscienza e non rispetto della libertà personale. Così la relazione autorevole assume un carattere meramente funzionale: richiesta di permessi, regolarizzazione di necessità varie, per nulla incisivo sulla formazione e maturazione delle persone.

Si tratta fondamentalmente di imparare un cammino di fede; di una ricerca di chiarezza e fedeltà vocazionale, ma anche di vivere un profondo coinvolgimento del cuore. Non basta quella santa tensione verticale a Dio, sostenuta dalla grande preghiera liturgica e dalla generosa fedeltà all’austera osservanza, che ha caratterizzato le generazioni monastiche che ci hanno preceduto.

Queste provenivano da una situazione sociale e familiare molto semplice e unificata, dove valori di devozione, fedeltà, gratitudine, soprattutto ai superiori, avevano ancora un grosso peso. Dagli anni del dopoguerra in poi ci siamo ritrovati tutti a fare i conti con un mondo molto più conflittuale a cavallo di trasformazioni radicali; un mondo che aveva ucciso fedeltà e ideali, che aveva stimolato reattività e critiche esasperate anche se, apparentemente, permaneva ancorato a conformismi ostinati e a nostalgiche perfezioni formali e devozionistiche, all’interno di un orientamento fortemente individualistico.

Certamente anche quegli anni di intenso travaglio hanno dato i loro santi, ma si percepiva dolorosa- mente in molte comunità, sia femminili che maschili, l’assenza di una sana corrente affettiva, di una pro- fonda integrazione fraterna, di una mutua e fiduciosa accettazione, di una reciproca simpatia. L’abitudine al severo giudizio delle «proclamazioni» negli abituali «capitoli delle colpe» comprometteva una volontà di positivizzare e affermare il bene che era certamente presente in ogni sorella o fratello, e non aiutava a generare una coesione comunitaria di giudizio e di visione. Apparentemente il cuore non era coinvolto. Certamente lo era per quella santa tensione verticale a Dio sostenuta dalla grande preghiera liturgica e dal- la fedele austerità dell’osservanza, ma meno evidente appariva la tensione orizzontale, l’abbraccio positivo alla propria comunità, la coscienza che un’appartenenza a Dio implicava necessariamente l’appartenenza, nella fede e nell’amore, alla propria chiesa comunitaria. Si sapeva che la croce ha due braccia e che solo se il braccio verticale è inchiodato a quello orizzontale si consuma l’offerta che salva e nasce quella dimensione eucaristica della convivenza umana che ha nome comunione. Si sapeva, ma non era ancora facile tradurlo in modalità concrete di convivenza.

Tuttavia, la coscienza di queste difficoltà che hanno caratterizzato, sia pure per un breve tratto, anche la nostra trasformazione storica non ci ha mai portato a rifiutare o a stigmatizzare il passato come fonte di negatività.

Ogni comunità deve trarre dalla propria storia, anche attraverso quelli che possono apparire gli aspetti più problematici o negativi, le linee di un cammino. Il passato, la grazia di una tradizione sono una grande scuola per iniziare un percorso pedagogico che faccia crescere l’amore tra noi, la reciprocità e l’affezione: le tappe del cammino a cui ci riferiamo nascono da una riflessione sulla nostra storia e nell’incontro con le generazioni attualmente in formazione, tappe semplicissime che si rivelano prodi- giosamente feconde.

5. Metodo di un cammino

Il metodo di una formazione all’amore passa sempre, inevitabilmente e fondamentalmente, per un’intensa formazione alla vita di preghiera, liturgica e personale; passa per quel paziente lavoro del cuore che impara lentamente ad ascoltare Dio che sempre si fa presente al cuore del nostro cuore nella Parola e nell’eucaristia, nella vita sacramentale e nella lectio divina, nell’ascolto della vita della propria Chiesa e dell’insegnamento dei superiori che la guidano.

La dimensione dell’ascolto è parte intrinseca di un’educazione del cuore.

(Tratto da: Pedagogia viva, Quaderni di Valserena, Nerbini 2020)

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Pubblicato il Cose nuove e cose antiche, Fondamenti, Perché vivono i monasteri

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