La foresteria, la chiesa, il piccolo giardino del convento o del monastero sono sempre frequentate da qualche persona per una sosta di preghiera, più breve o più prolungata, o anche semplicemente per un momento in cui stare in silenzio di fronte alla propria anima.
Abbiamo pensato di chiedere via via a qualcuna di queste persone che cos’è per loro la presenza di questi luoghi, di questi angoli di mondo il cui significato forse sfugge ai più.
Ecco la prima risposta che ci giunge.
Erat ergo recumbens unus ex discipulis ejus in sinu Jesu, quem diligebat Jesus
Gv 13,23
Il testo latino rende meglio la plasticità della scena.
Ecco cos’è per me il monastero. È stare con la testa reclinata sul petto di Gesù, ascoltare i battiti del Suo sacratissimo Cuore, abbandonarsi al flusso vivo del Suo Preziosissimo Sangue, che scorre nel Suo corpo e che è stato sparso per noi.
È fare come San Giovanni che, apostolo giovinetto, ha scelto la parte migliore.
Sì, il monastero è la parte migliore, che non sarà tolta. È la schola in cui si muovono i primi passi di quella che sarà la sorte dei santi nella luce: la contemplazione di Dio.
Dice il Catechismo che abbiamo imparato da piccole, che Dio ci ha creato per conoscerlo, amarlo e servirlo in questa vita, e per goderlo poi nell’altra in paradiso.
La prima parte, conoscerlo, amarlo e servirlo, dove si realizza meglio che in monastero? Lì ogni attività ha questo fine: la lode di Dio, il rendimento di grazie, la riparazione per noi stessi e per tutti quelli che Lo offendono, l’impetrazione della Sua misericordia.
Il monastero è la fucina di tutto questo: fucina invisibile ai distratti, ai mondani, ma non al padrone della messe. È il luogo dove si ristabilisce la giustizia, dove i diritti di Dio, combattuti e ostacolati nel mondo, vengono finalmente riconosciuti.
In domo Domini ibimus (Sal 121,1): andremo alla casa del Signore. Il monastero è la casa del Signore e il sorriso illumina il nostro viso quando pensiamo a quella casa accogliente.
Alla sua porta Gesù rinnova la domanda che fece ai soldati che gli si avvicinavano fuori dell’Orto degli Ulivi: Chi cercate? Quem quaeritis? (Gv 18,4)
Se rispondiamo Gesù il Nazareno, Egli farà risuonare la potenza del Suo Nome: Sono io. E noi cadremo a terra.
Ecco compendiata tutta l’ascesi monastica. In monastero cadiamo a terra come i soldati venuti a catturare Gesù. Anche noi spesso vogliamo catturare Gesù, al modo che lo vuole catturare il mondo, nel clamore e nell’agitazione. Ma le nostre braccia restano vuote.
Deposuit potentes de sede et exaltavit humiles (Lc 1,52), ha deposto i potenti dai troni ed esaltato gli umili. Quest’azione di Dio avviene anzitutto nelle nostre anime in cui l’uomo vecchio si ostina a voler occupare il trono del Re, di Cristo Signore.
Non c’è posto più adatto a combattere questa battaglia che il monastero: nel silenzio il Signore lavora e lavora tanto più quanto più noi ci abbandoniamo alla Sua lode e dimentichiamo noi stessi.
In monastero sembra che non succeda niente e invece succede tutto, tutto ciò che è veramente importante.
Lì, anche se magari vi soggiorniamo solo qualche giorno, “la Divina Maestà chiede in primo luogo il nostro cuore: Figlio mio, dammi il tuo cuore, dice quella Bontà incomparabile (Prov. 23,26) e, dopo, le tue offerte mi saranno gradite” (San Francesco di Sales, Esortazione XVI, 23).
Anche noi, come la Maddalena, corriamo al sepolcro, che è la Santa Chiesa e, rispondendo agli angeli, diciamo con lei: «Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno posto” (Gv 20,13). Se ci lasceremo condurre dai santi angeli fino al monastero, allora, senza accorgerci che sia Lui, vedremo Gesù e gli diremo: «Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo” (Gv 20,15). Ed Egli ci dirà: “Maria!”.
Lo dirà alla nostra anima nel silenzio del chiostro, tra quelle pietre che trasudano preghiera perché sono imbevute del canto di generazioni di monaci la cui eco non si smorza ma risuona ancora e per sempre.
Rita Bettaglio