Rinnovamento rivitalizzazione inculturazione…missione?
La bella lettera di Mons. Erik Varden, Monaco cistercense OCSO e Vescovo, rivolta al Capitolo Generale OCSO e pubblicata in queste pagine, ci ha richiamati al cuore di questi problemi che ci agitano da vari decenni e che per alcune, purtroppo per non poche case, ci hanno condotti alle soglie della soppressione.
L’inculturazione è stata un’altra forma di adattamento. La consideriamo come qualcosa di esotico grazie allo sforzo dei missionari nelle zone remote per imparare nuove lingue e costumi. Questo è certamente un aspetto. Se intrapresa deliberatamente, questa inculturazione può dare abbondanti frutti di bene. Ma mi chiedo se siamo stati sufficientemente attenti a un’altra inculturazione, più insidiosa. Questa consiste nell’arrendersi gradualmente alla mentalità di un mondo per il quale Dio ha smesso di essere una nozione significativa. Un criterio di discernimento ci è stato dato da Madre Cristiana Piccardo che nel 1999 ha scritto:
L’inculturazione più significativa che ci viene chiesta è senza dubbio quella di rimanere fedeli al nostro carisma monastico, ascoltando con attenzione ciò che ci dice la Chiesa locale. Sì, inculturazione significa prestare attenzione alla ricchezza della vita e della cultura locale. Ma ancora più fondamentalmente, significa introdurre la novità del Vangelo nella cultura locale come lievito vivente e amante.
Su questa idea di inculturazione come evangelizzazione della cultura, e sull’altra che ci viene nello stesso articolo proposta, di vita monastica come richiamo alla centralità di Dio e a vivere della Vita di Dio in noi, vorremmo pubblicare una serie di articoli che mostrano come non esistono soluzioni prefabbricate; come ciascun uomo o donna di Dio abbia dovuto lavorare con il materiale che aveva fra le mani la realtà concreta che aveva di fronte, cercando, trovando e rendendo accessibile questa vita di Dio con le formule più svariate.
DOM LEHODEY E IL SANTO ABBANDONO
di Rita Bettaglio
Teotimo, dobbiamo essere così, piegandoci e conformandoci al beneplacito divino, come se fossimo di cera, non perdendo tempo a desiderare e volere le cose, ma lasciando a Dio di volerle e farle al nostro posto, come gli piacerà, gettando in lui tutta la nostra sollecitudine in quanto egli ha cura di noi (Teot., L. IX, cap 14)
Questo è ciò che San Francesco di Sales raccomanda all’anima amante di Dio: il “completo abbandono non solo alla volontà di Dio, ma a ciò che a Lui piace, al suo “bon plaisir”, al suo beneplacito (Teot., libro IX, cap. I)”
C’è un abate trappista, precisamente l’abate di Nostra Signora della Grazia a Bricquebec, che, nel 1919, al santo abbandono ha dedicato un libro che ha aiutato molte anime, nel chiostro e nel mondo”.
Si tratta di Vital Lehodey (1857-1948), quinto abate dell’Abbazia di Bricquebec, fondata nel 1824 da Dom Augustin Onfroy. Curiosa per noi, appesantiti da una visione troppo umana, la nascita di quest’abbazia. Ma Dio è Dio e i Suoi pensieri non sono i nostri.
L’abbé Onfroy, curato di Disgoville (Manche), desiderava essere monaco Cistercense, ma il suo vescovo non ne voleva sapere: era un ottimo sacerdote, pieno di zelo apostolico, e non vi voleva rinunciare. Poiché, però, l’Onfroy insisteva, il presule lo invitò a fondare lui stesso un monastero nella diocesi. Il curato accettò in spirito d’obbedienza, non senza reticenze. Rispose al Vescovo come una volta aveva fatto San Pietro a Nostro Signore: “Sulla tua parola getterò le reti”. L’abbazia fu fondata il 13 luglio 1824.
Ma veniamo al nostro autore.
Alcime Jude Lehodey, nato ad Hambye, Francia, il 17 dicembre 1857, fu ordinato sacerdote nel 1880 e per 9 anni svolse il suo ministero come diocesano. Entrò alla Trappa di Bricquebec dove, il 15 agosto 1890, ricevette l’abito e il nome di Vital. Ne fu abate dal 1895, avendo ricevuto il necessario indulto per anticipare la professione solenne. Si dimise da superiore nel 1929 per motivi di salute.
Perché abbiamo raccontato tutto ciò? Che c’entra col Santo Abbandono?
Lehodey si volge a comporre un’opera sul santo abbandono alla divina volontà, conscio di due cose: che importanti autori spirituali, quali Padre Rodriguez, Saint-Jure, De Caussade ne abbiano egregiamente trattato e che “sia un oggetto irto di difficoltà”
Egli stesso nella Prefazione avverte che “ci lasceremmo costantemente condurre da due guide assolutamente sicure: San Francesco di Sales e Sant’Alfonso de’ Liguori”. E aggiunge: “L’uno e l’altro hanno scritto in modo mirabile sul santo abbandono ed entrambi lo hanno vissuto in modo non meno mirabile”.
Ma c’è di più. “Citeremo entrambi ma più spesso san Francesco di Sales, perché i semiquietisti hanno preteso di farsene uno scudo”.
Leggiamo, nella Presentazione al volume stesso, scritta da P. Michael Farrell, che, nel 1910, dom Lehodey “fu incaricato dal capitolo generale dell’ordine di revisionare il Direttorio dei cistercensi riformati, manuale ascetico compilato nel 1869 da Benoit Moyen dell’abbazia di Melleray e improntato, a giudizio della maggioranza, ad un’eccessiva austerità.” Il nostro si mise al lavoro e, in pochi mesi, potè dare alla stampa il nuovo Direttorio, “in cui si accentuava il primato della carità e della contemplazione quali ideali del monaco, senza peraltro minimizzare l’importanza dell’ascesi spirituale e corporale”.
Egli viveva in un’epoca in cui due opposti errori continuavano a stendere le loro propaggini e ghermivano le anime: il quietismo (o molinosismo, dall’autore spagnolo Molinos) e il giansenismo. Del primo, abbiamo visto, parla Lehodey stesso: esso prendeva le mosse da un malinteso concetto di passività, secondo il quale la perfezione evangelica si poteva raggiungere velocemente con l’unione mistica con Dio, saltando a piè pari la via purgativa e quella illuminativa, attraverso una preghiera di assoluto silenzio e quiete. Su questa strada i quietisti arrivarono a negare la necessità di ricevere i Sacramenti, in particolare la confessione, in quanto uniti direttamente a Dio. Questo movimento comparve nel XVII sec., in particolare in Italia, Francia e Spagna, ma non smise di influenzare la spiritualità dei secoli successivi. Il quietismo non era una dottrina teologica sistematica ma piuttosto un insieme di insegnamenti pratici, diffusi da piccoli gruppi guidati da un sacerdote o da un laico. Per questo era piuttosto sfuggente, anche sul piano disciplinare: si appropriava degli insegnamenti di grandi maestri spirituali, come san Giovanni della Croce o san Francesco di Sales, per dimostrare le proprie tesi erronee. Subdolamente, perciò, continuò ad insinuarsi nei secoli seguenti il XVII, cercando d’inquinare le acque della sana spiritualità.
All’interno dell’Ordine Trappista il contributo più importante che dom Lehodey diede fu di mitigare un certo rigorismo che metteva eccessivamente l’accento sull’aspetto penitenziale della vita monastica. La riforma dell’ordine Cistercense attuata da De Rance’ aveva finito per porre l’accento sulla Penitenza a discapito dell’equilibrio tutto romano della Regola di San Benedetto e del primato della carità. … (SEGUE)
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