Riportiamo in questo articolo una conferenza tenuta dall’autore davanti a un pubblico monastico qualificato. Riteniamo della massima importanza le conclusioni cui è arrivato nella sua lunga esperienza.
Riteniamo infatti che questa riflessione sia molto molto rara.
Una conferma l’abbiamo avuta dal dialogo che ha seguito la conferenza. Nessuna eco di quanto ascoltato, come se il conferenziere avesse parlato in cinese. Solo una serie di considerazione già molte volte sentite, di cui riportiamo la più significativa nel suo genere:
“Di fronte a una comunità fragile, è assolutamente necessario evitare qualsiasi tipo di giudizio: non risolve nulla dire che una comunità sta chiudendo perché ha dei problemi. È importante anche uscire dal senso di colpa che viene espresso più o meno apertamente: … è colpa loro, perché non hanno fatto le scelte giuste dopo il Concilio… Partecipare alla chiusura di una comunità è un’esperienza molto diversa: osservare una sorella anziana che prega davanti al tabernacolo mentre abbandona la sua comunità: “Mi dispiace, non è colpa mia”, insegna l’umiltà e la moderazione sia nei giudizi che nelle parole”.
Parole sante, ma che ripropongono l’interrogativo: è possibile aiutare una comunità?
Questa domanda mi tocca personalmente in molti modi. Da molti anni, infatti, come presidente della Fondation des Monastères di Parigi, mi trovo di fronte al problema della chiusura delle comunità. Questo solleva sempre una moltitudine di domande: perché, come possiamo aiutarle, è possibile? Anche se il nostro ruolo è semplicemente amministrativo, canonico e finanziario, spesso ci troviamo di fronte alla questione non solo del futuro delle persone, ma anche del futuro dei luoghi. Tuttavia, mi sono confrontato con questo problema in modo più concreto da quando sono stato nominato commissario monastico di una comunità[1], poi nominato superiore di un’altra grande comunità[2]. In modo molto diverso, ma altrettanto vitale, mi si pone la domanda: È possibile aiutare una comunità?
La domanda è tanto più acuta per me perché il mio primo abate[3], durante il suo abbaziato aveva risposto alle richieste di aiuto di numerose comunità. Si diceva addirittura, quando sono a mia volta diventato abate della comunità, che all’epoca c’erano sette abati del nostro monastero in carica in altri monasteri. Da allora, molte di queste comunità hanno chiuso e altre si trovano nuovamente in una situazione difficile. Mi sono spesso chiesto se questo non abbia indebolito la nostra comunità più di ogni altra cosa, anche se ha prolungato un po’ la vita delle case che abbiamo aiutato. D’altra parte, ho anche notato che alcune comunità considerate fragili per decenni sono ancora molto vive, mentre altre case che sembravano fiorenti sono scomparse. Mi sono spesso chiesto se non avessimo commesso un errore. Può un singolo abate, per quanto dotato, rivitalizzare davvero una comunità?
Ricordo che uno dei nostri Abati Generali aveva stilato un elenco di criteri per cercare di valutare la vitalità di una comunità. Abbiamo usato questo elenco per aiutare quattro comunità femminili che si sono poi riunite in uno solo dei loro monasteri, per aiutarle a riflettere sul loro futuro. Si è trattato di un processo a lungo termine che ha richiesto molto tempo e viaggi. Una volta superata la fase in cui ogni comunità pensava che le altre avrebbero dovuto aiutarla e che questo sarebbe stato sufficiente, abbiamo dovuto procedere per gradi, con domande sempre più precise, man mano che la consapevolezza cresceva. A poco a poco, i voti delle diverse comunità si sono avvicinati. E quando fu presa la decisione di unire le comunità, così come quella del luogo di impianto, dovevamo ancora trovare la persona che potesse accompagnare questo processo come superiora, e il metodo da usare. Questo è stato poi così formulato: chiedere a tutte le sorelle di unirsi a un’altra comunità e lasciare sul posto solo il gruppo più giovane di ogni comunità durante i lavori, in modo che tutte le sorelle dovessero vivere questo passaggio in un nuovo monastero. Ci sono voluti molto tempo ed energie, ma ne è valsa la pena.
Tuttavia, questo modello non è un modello. Altri tentativi hanno dimostrato che sono necessarie molte condizioni perché questo processo sia possibile: il desiderio di una vera e propria rifondazione, la volontà di cambiare, la scelta di mettere il bene della comunità al di sopra dei propri interessi, la capacità di porre la scelta della vita monastica come primo criterio di discernimento più importante dei propri legami affettivi o delle proprie abitudini. E forse soprattutto la capacità di ricominciare da capo. Tutto ciò non può essere richiesto a chiunque, a prescindere dall’età. Ma presuppone una particolare disposizione spirituale.
Questi due modelli di aiuto non sono probabilmente gli unici, ma sono quelli che ho potuto sperimentare personalmente. Mi sono reso conto molto presto che non è il numero il criterio più importante. Alcune grandi comunità sono scomparse, mentre altre più piccole sono sopravvissute. Non è nemmeno la qualità delle persone inviate ad aiutare, e nemmeno, credo, la benevolenza e il fervore delle comunità che hanno ricevuto questo aiuto. Visitando regolarmente le varie case, mi è apparso chiaro che era necessaria una certa combinazione di fattori perché l’aiuto funzionasse.
Quando sono diventato abate, ho seguito con grande interesse ciò che accadeva nella nostra casa filiale. Dom K. era allora abate di quella comunità. In pochi anni, il numero dei fratelli si era ridotto. Quando arrivai io, erano ancora una trentina, e l’anno successivo una decina. Hanno preso decisioni difficili e coraggiose che a volte hanno richiesto qualche battaglia, ma sono rimasti fermi. E sono rimasto molto colpito da ciò che ho scoperto allora: L’Abate, il maestro e l’economo formavano un piccolo gruppo unito, capace di gestire la situazione e di dare una direzione chiara in termini di formazione ed economia. L’ho chiamato il triangolo magico.
Ciò che contava non era il numero, ma il fatto che l’Abate e il Priore, il gruppo di formazione e il gruppo di gestione economica lavorassero insieme per il bene della comunità, senza mettere al primo posto il proprio ego. Questa vera e propria comunione di personalità molto diverse ha dato una solidità che era percepibile e che non avevo percepito nella mia comunità, dove comunque eravamo più di quaranta all’epoca.
Questa scoperta personale è stata per me un’importante chiave di lettura. Il problema non era il numero, ma l’unità tra i tre poli fondamentali di ogni comunità. Senza di essa, la divisione, i clan, l’egoismo e l’orgoglio rischiavano di far crollare una comunità. Ed è questo criterio che mi guida ancora oggi nelle comunità di cui sono responsabile. L’Abate da solo non può fare nulla senza il sostegno dei responsabili della formazione e dell’economia. Senza questa dimensione sinodale, dove ognuno fa il suo lavoro ma mantiene il suo posto, per il bene comune, possiamo fare quello che vogliamo, ma non funziona.
Quindi, è possibile aiutare una comunità? Sì e no. Sì, se il superiore non è solo ma può contare su fratelli capaci di formare questo triangolo magico, ma soprattutto può far parte di questa dinamica, senza sostituirsi a tutto. E poi ci deve essere un senso del bene comune che trascende tutte le scelte e i gusti personali.
Non è possibile se il superiore pensa di sapere tutto e lavora da solo. E se gli ufficiali vanno ognuno per la propria strada senza preoccuparsi della comunione con il superiore e del bene comune.
Mi sembra che questo presupponga una certa onestà da parte nostra. Il coraggio di guardare con chiarezza a ciò che accade e al modo in cui ci comportiamo. È sempre più facile cercare qualcuno da incolpare: l’Abate, il Cellerario, il Padre Maestro, il Padre Immediato, la Comunità, l’Ordine… È più difficile interrogarsi e riconoscere ciò che divide e distrugge nei nostri stessi atteggiamenti.
Dom Guillaume Jedrzejczak
Presidente de la Fondation des monastères
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[1] Comunità di monaci situata in paese in guerra, in zona di frontiera. Per discrezione non riportiamo i nomi.
[2] In Francia.
[3] Noto Abate di una allora grande comunità in Francia
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