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Il Concilio di Trento, san Bernardo e l’interpretazione monastica della sacra scrittura

Il Concilio di Trento, san Bernardo e l’interpretazione monastica della sacra scrittura

di Suor Veronica Pellegatta, monaca cistercense OCSO

Sappiamo che un rinnovamento della vita può esserci solo se si torna a risanare il pensiero malato: era senz’altro chiaro ai Padri Tridentini, che di fronte al grande dibattito su come affrontare le richieste di rinnovamento dei costumi avanzate da più parti nel XV-XVI secolo, decisero non tanto di ribadire o rinnovare regole morali quanto di ritornare ai capisaldi del Sacro Deposito. Trento ebbe il compito storico di chiarire il rapporto tra Sacra Scrittura e Sacra Tradizione, di fronte a un Lutero che voleva tenere la prima ed eliminare la seconda: esse non sono separabili, insieme sono la Rivelazione che Cristo ha consegnato alla Chiesa per mezzo del Suo Spirito. La Scrittura è la parte che è stata fissata nello scritto, ma da sola non esaurisce la Rivelazione. Essa deve essere vivificata dallo Spirito, cioè interpretata nel Corpo vivo della Chiesa, con la guida di chi ha ricevuto l’incarico di conservare integra l’interpretazione consegnata agli Apostoli: il Magistero vivo. I Padri Tridentini dedicarono poi la maggioranza del tempo e dei documenti ai sette Sacramenti, nella convinzione che solo mediante i Sacramenti è donato efficacemente lo Spirito Santo che rigenera la Chiesa e l’unità del corpo magisteriale, consentendo così la vivificazione, l’interpretazione e la trasmissione della Sacra Scrittura, la quale non è stata consegnata al singolo ma al popolo di Dio nella sua unità, perché cammini fino al compimento del Disegno del Padre. Se i Gesuiti hanno avuto il compito di predicare il Vangelo fino ai confini del mondo, i monaci, nel ‘500 come in tutti i tempi, hanno quello di dare la vita perché il Sacro Deposito sia conservato integro e questo hanno fatto anche in quel tempo e nei successivi secoli “bui” dell’Illuminismo che tanto sono in debito con Lutero e i suoi amici.

Un assaggio del tentativo operato nel XVI secolo per tener salda la fede del popolo di Dio di fronte ai mali del tempo, in comunione con lo spirito tridentino, l’abbiamo conosciuto, nell’Ordine Cistercense, a Cortona nella vita della venerabile Veronica Laparelli, una santa monaca che ha affondato la sua vita nel mistero dell’Incarnazione, nell’amore alla sua Comunità e nella devozione alla Santa Eucarestia. La stessa cosa abbiamo ammirata in una sala del Museo diocesano di Cortona, dove, sotto la sala che ospita l’arcifamosa Annunciazione del Beato Angelico, si trova un oratorio con volta a botte, affrescato nel 1555 da Cristoforo Gherardi su progetto del suo maestro Vasari. Sulla parete dell’altare si trova un Compianto sul Cristo morto, un gruppo in terracotta che pone al centro dell’ambiente il Corpo Santissimo di Gesù deposto dalla Croce. Ai lati una serie di 12 affreschi che rappresentano ciascuno un sacrificio dell’AnticoTestamento, in modo semplice e stereotipato, un altare e un grande personaggio che eleva al cielo la sua offerta: da Abele, a Enos, Noè, Melchisedek, Abramo col figlio, poi Isacco che sacrifica un ariete, Giacobbe dopo il sogno della scala, poi Mosè e Aronne, e poi via via, Elia, Davide… Sopra ogni affresco si trova una citazione della Scrittura che interpreta il senso del sacrificio antico in relazione a quello di Cristo, per esempio: “Ignem veni mittere – Sono venuto a portare il fuoco”; oppure che offre l’interpretazione tradizionale espressa da Paolo: “Omnia in figura – tutte queste cose accaddero loro come esempio” (1Cor 10). Il compimento del Disegno è affrescato sul soffitto dove campeggiano la scena della Trasfigurazione, la discesa agli Inferi e una maestosa Risurrezione. Tutte e tre con una rappresentazione del Corpo glorioso del Signore pieno di luce. Insomma un condensato della fede tridentina nell’unità del Disegno della Redenzione e dunque della Sacra Scrittura che ce lo consegna nel suo complesso fatto di prefigurazione e compimento, fino al coinvolgimento di ogni fedele mediante la comunione col Corpo di Cristo nell’Eucarestia.

Questa stessa fede ci è consegnata negli scritti di san Bernardo, nostro Padre, che continuamente tentiamo di meditare. Riportiamo l’inizio del III Sermone per la Vigilia di Natale come esemplare di una convinzione di metodo:

 «Oggi, dice, saprete che il Signore verrà». Queste parole sono poste nella Scrittura in un posto e in un tempo preciso; ma non è senza significato che la madre Chiesa le abbia assunte per la vigilia del Natale del Signore. La Chiesa, dico, cioè colei che ha con sè il consiglio e lo Spirito del suo Sposo e Dio, tra i seni della quale riposa il Diletto, che in modo tutto speciale la possiede e la conserva come sede del cuore. Nessuna meraviglia, dato che fu lei a ferire il suo cuore e immerse l’occhio della contemplazione nell’abisso dei segreti di Dio, così che a Lui nel suo cuore e a se stessa nel cuore di Lui ella ha fatto la dimora perenne. Quando dunque ella altera o alterna le parole nella divina Scrittura, questa nuova composizione è più forte della prima posizione delle parole, e forse tanto più forte quanto più c’è distanza tra la figura e la verità, tra la luce e l’ombra, tra la padrona e la serva. (Traduzione nostra)

In questo brano Bernardo “risolve” la grande questione dell’interpretazione della Scrittura, che risulta così ostica oggi, con grande naturalezza. Nell’introduzione ai due volumi dell’Opera Omnia di Bernardo con i Sermoni liturgici, per esempio, è detto che per Bernardo la Bibbia è soprattutto un “lessico di riferimento” e probabilmente il moderno lettore troverebbe il modo di Bernardo di usare la Bibbia “eccessivo e fantasioso”, risultandone infastidito per il fatto che “sembra non si possa dire niente senza appoggiarsi a citazioni bibliche”, che per altro possono portare con sé una molteplicità di significati, a volte anche contraddittori. C’è poi chi, anche nel nostro Ordine, sostiene che proprio il modo di usare la Bibbia è ciò che rende Bernardo ostico per il lettore di oggi generando “profondo disagio”. Si tratta tuttavia solo di recuperare il senso del simbolismo medievale e intendere il ruolo dominante riservato da Bernardo alla facoltà dell’immaginazione? Riteniamo sia troppo poco.

Oggi forse sempre più genera disagio e irritazione piuttosto l’esegesi critica che seziona il Pentateuco nelle fonti Elohista e Javista o ci aiuta a ritrovare negli oracoli profetici strutture del tipo A-B-C-C’-B’-A’, oppure che ci dicono che un versetto così non è possibile che stia proprio lì nella Bibbia perché è stato scritto in epoca differente rispetto al suo contesto ecc… Oppure anche una certa lettura “spirituale” che fa della Scrittura un uso puramente sentimentale. San Bernardo invece può ancora suscitare stupore, fascino ed entusiasmo proprio nel suo modo di usare la Scrittura, con grandissima conoscenza, con immenso amore e insieme somma libertà, come testo di riferimento assoluto per indagare il Disegno di Dio e il Mistero di Cristo incontrato nella Liturgia, sperimentato nella vita comune, sbriciolato nell’insegnamento dell’Abate alla sua Comunità. È questo ciò che abbiamo incontrato entrando in monastero.

Ci sembra che sia compito inderogabile dei monaci e delle monache cistercensi quello di seguire la tradizione dei Padri dell’Ordine e in particolare san Bernardo nella modalità di approccio alla Scrittura per ritrovare continuamente la strada da seguire nel compito della contemplazione del Mistero che la Chiesa ci assegna. Tenteremo in seguito di declinare le caratteristiche di questo approccio in San Bernardo in particolare.

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Pubblicato il Fondamenti, Riflessioni

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