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Il nostro compito

Intervista a M Maria Francesca Righi, badessa di Valserena, ocso.

– Madre Maria Francesca, quale richiamo per il mondo monastico pensa sia insito nel triste momento di abusi e di accuse (giuste e ingiuste) che vive la chiesa?

– Ricordo vivamente i richiami del Santo Padre Benedetto XVI a fare giustizia: nessuno di noi può esimersi da questo compito. Penso che la responsabilità del nostro monachesimo benedettino sia grande e sia anzitutto culturale: a noi era ed è affidato il compito di vegliare sulla coscienza cristiana, il compito di capire e far capire, conoscere e trasmettere: spesso siamo venuti meno a questi compiti. Anche la scarsità delle vocazioni perseveranti – sottolineo: perseveranti, dato che vari decenni fa le vocazioni erano abbondanti ma non abbiamo saputo farne delle monache e dei monaci – lo attesta.

Vuole spiegarmi meglio cosa intende per compito culturale?

– Non prima di tutto l’acquisizione di competenze laiche e cattedre religiose, ma l’elaborazione di una cultura. Il lavoro dei monaci antichi era stato sintetizzato nell’espressione: Cultura umanistica e desiderio di Dio: questo è sempre stato il nostro compito come cristiani di fronte alla nostra identità ed eredità: capire e trasmettere.

Come si è formata la teologia monastica? Mettendo insieme in tensione feconda la Grammatica (arte dello scrivere) e l’Escatologia, il desiderio del cielo e per questo poggiando sulle due colonne che sono Benedetto (che prescrive ai monaci di imparare a leggere i salmi) e Gregorio (che li eleva a guardare il cielo). Cioè sulle due colonne che sono la tradizione patristica (Gregorio- Agostino) e quella monastica (Benedetto) entrambe poggiate sulla Scrittura. Tutto questo ha dato vita a una cultura monastica e cristiana, ha vivificato lingua, liturgia, studi, ha messo insieme fede e ragione, soprannatura e natura, chiesa e mondo: ci ha insegnato a leggere la realtà.

– Ma noi ora su quali basi nasciamo e come possiamo render onore al nostro compito di cristiani e monaci?

– Ci sono stati tre elementi decisivi per l’immensa opera del cristianesimo nel mondo antico: la scelta del dio dei filosofi, la riconciliazione seguente tra religiosità e razionalità, la capacità di evidenziare la validità morale dei comandamenti di Dio come corrispondenti al profondo desiderio del cuore. Quello che evidentemente è venuto meno oggi.

La modernità ha generato un grande inedito: una cultura che postula l’ateismo: Nietzsche Marx, Freud. Il postulato della non-esistenza di Dio accresce il “vantaggio” dell’evoluzionismo.

Ma se al principio non c’è il Logos ma un’energia materiale o il caso, la conseguenza morale sarà: la selezione naturale, la lotta per la sopravvivenza, la vittoria del più forte.

– Quale responsabilità possiamo avere riguardo all’ateismo, noi che facciamo una scelta di vita consacrata?

Certamente noi facciamo professione di fede, ma facilmente possiamo cadere in giudizi e atteggiamenti di pensiero di stile mondano e agnostico. Una posizione non atea ma agnostica si caratterizza come astensione dal giudizio sulla questione dell’esistenza o meno di una qualche entità divina. L’agnostico afferma cioè di non sapere la risposta, oppure afferma che non è umanamente conoscibile una risposta e che per questo non può esprimersi in modo certo sul problema esposto. Se noi ci dichiariamo credenti, spesso esitiamo sul trarre le conseguenze dovute dalla nostra fede, scivoliamo sulle posizioni di tutti. Ma questo atteggiamento apre la porta a qualsiasi mito, o ideologia, che riempia il vuoto lasciato dalla rivelazione di sé che Dio ha dato; e la morale conseguente sarà individualismo, relativismo e tolleranza come legge.

Invece l’unità tra fede e ragione è fondata sul comune riferimento a una Verità.

– Quali le conseguenze di tutto questo? 

L’ unità fra fede e ragione, l’incontro della fede con la filosofia è unico nel suo genere, un fenomeno unico in assoluto per millenni, unico e proprio non del cristianesimo, ma dell’Europa. E’ in un certo senso l’eredità occidentale: il cristianesimo assembla Israele Grecia e Roma in una profonda unità di fede ragione, che significa anche unità di natura e soprannatura, unità di chiesa mondo. Non ci siamo resi conto fino a questo punto la responsabilità di tutto questo fosse affidata a noi.

– Può precisare meglio quale ritiene sia l’origine degli abusi?

– Gli abusi hanno come radice ultima la scomparsa di Dio, del trascendente e la perdita della vocazione dell’uomo come vertice della creazione. Il tentativo più grande di recuperare unità tra fede e ragione è stato fatto dalle catechesi di GP II: la teologia del corpo che mette insieme il particolare concreto (il corpo) con il suo destino ultimo (immagine di Dio) che è la stessa operazione che sta alla base della cultura monastica: l’unità tra la grammatica e il desiderio del cielo, tra la storia e il suo compimento ultimo. Se il linguaggio monastico e teologico non era più in grado di proporre queste realtà, era necessario un grandissimo lavoro per il rinnovamento del linguaggio, della vita. In fondo, era stata questa la richiesta del Concilio Vaticano II.

Su che cosa puntare oggi?

– Su tutto quello che la Provvidenza, nella storia, ci mette davanti, senza paure e senza pregiudizi, cercando in ogni cosa la luce della Verità. Ad esempio, avevo in questi tempi fra le mani le Rivelazioni della Vergine di La Salette: impressionante la loro attualità, lasciamoci provocare:

«Melania, ciò che ti dirò adesso, non sarà sempre un segreto: lo potrai pubblicare nel 1858.»

«I Sacerdoti, ministri di mio Figlio, i Sacerdoti dico, per la loro vita cattiva, le loro irriverenze e la loro empietà nel celebrare i santi misteri, per l’amore del denaro, l’amore degli onori e dei piaceri, i Sacerdoti sono diventati cloache d’impurità. Sì, i Sacerdoti chiedono vendetta, e la vendetta è sospesa sulle loro teste. Guai ai preti e alle persone consacrate a Dio, che per la loro infedeltà e la loro cattiva condotta, crocifiggono di nuovo mio Figlio! I peccati delle persone consacrate a Dio gridano verso il Cielo, attirano la vendetta, ed ecco che questa batte alla loro porta, perché non vi sono più anime generose, non vi è più alcuno degno di offrire la Vittima senza macchia all’Eterno in favore del mondo.»

«Dio colpirà in modo esemplare.»

«Guai agli abitanti della terra! Dio sfogherà la sua collera e nessuno potrà sfuggire a tanti mali messi insieme.»

«I capi, i condottieri del popolo di Dio, hanno trascurato la preghiera e la penitenza e il demonio ha ottenebrato la loro intelligenza; sono diventati quelle stelle erranti che il vecchio diavolo trascinerà con la sua coda per farli perire. Dio permetterà al vecchio serpente di mettere divisione fra i regnanti, in ogni società e in ogni famiglia; soffrirete pene fisiche e morali; Dio abbandonerà gli uomini a se stessi, e manderà dei castighi che si susseguiranno per più di trentacinque anni.»

Non abbiamo paura di questo linguaggio, non consideriamolo desueto, guardiamo alla realtà dei fatti, accogliamo la provocazione: Rimettere Dio al suo posto. Questo significa non presupporre e poi mettere da parte, ma anteporre e dargli il posto che è il suo e questo a partire da noi: dalla preghiera personale e liturgica, dal silenzio come spazio della comunicazione, dall’umiltà come condizione della preghiera, dalla gioia come frutto della verità, dalla comunità come luogo in cui tutto ciò avviene in analogia alla corrente di comunicazione, ascolto e lode che intercorre nella SS. Trinità.

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Pubblicato il Pane e speranza dei monasteri, Riflessioni, Vita consacrata

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