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JOSEP RATZINGER – BENEDETTO XVI

JOSEP RATZINGER – BENEDETTO XVI

Nella immensa gratitudine per il dono di papa Ratzinger e nello sgomento per il vuoto che questa piccola, fragile, anziana persona lascia nella Chiesa – vuoto colmabile solo dalla grandissima eredità che ci lascia,- impossibile scegliere parole da dire. Tante, grazie a Dio e di una grande ricchezza ne abbiamo ascoltate in questi giorni.

Come monache contemplative e benedettine ci rimane solo la parola: GRAZIE.

E fra le tante parole lette vorremmo raccoglierne una che si ricollega molto bene all’argomento di cui stavamo iniziando a parlare. La prendiamo da un articolo “Intervista sul Concilio a Ratzinger”, presentata come pubblicata in tedesco, inedita in italiano.

Parlando della Chiesa nei rivolgimenti storici prima e dopo il Concilio, Papa Ratzinger diceva in questa intervista: “l’identità non è mai statica, ogni generazione deve riconquistarla”.

Se questo è vero per la Chiesa, è certamente vero per la Vita Consacrata, la cui identità, più precisa rispetto alla comune identità cristiana, tanto più sembra vacillare nella nostra epoca e, di fatto, in tanta parte è crollata.

Il Concilio con Perfectae Caritatis ci aveva esortati a un serio lavoro per approfondire la nostra identità; chi lo ha fatto si ritrova avvantaggiato o, semplicemente, esiste ancora. In ogni caso, questa lotta per l’identità è certamente ancora in pieno svolgimento.

Ogni esperienza cristiana privilegiata, comunità parrocchiale, comunità di vita consacrata o di associazione o movimento, per quanto nasca da ispirazione divina riconoscibile e riconosciuta, rischia dopo qualche tempo di richiudersi su di sé e sulla propria esperienza. E’ quello che Papa Benedetto ha chiamato nella stessa intervista: egoismo di gruppo. “Si tratta di ridurre l’individualismo e l’egoismo di gruppo e di usare più comunione”.

Ci domandiamo se ogni comunità che fatica a integrare nuove vocazioni non dovrebbe interrogarsi su questa parola.

Come liberi figli di Dio, battezzati e chiamati ad essere santi, siamo chiamati a una sana critica su quanto abbiamo vissuto e viviamo, su quanto si vive attorno a noi, sugli errori fatti, personalmente e comunitariamente e anche ecclesialmente.

Non per essere critici, ma per essere liberi e per non ripetere gli stessi errori.

Facciamoci alcune domande più specifiche:

Accorpare comunità di anziani o di anziane, è certamente una pia opera; ma perché non riusciamo a ricevere giovani e perché laddove i giovani ci sono e affollano i monasteri preferiamo chiudere e disperderli?

Perché non riusciamo a mettere insieme la saggezza e l’esperienza delle comunità anziane con la vitalità, forse un po’ selvaggia, delle comunità giovani e con il loro bisogno di assoluto?

Ci siamo forse lasciati soffocare dalla sottile e onnipervasiva polvere di un pensiero e di una prassi materialista che ha invaso menti e cuori di coloro che pur si dichiarano credenti, e consacrati e contemplativi?

Perché non riusciamo più ad educare la forza nei giovani, perché la nostra saggezza di anziani pare buona soltanto per la buona morte?

Talvolta sembra che di fronte ai giovani, al loro bisogno di sacro, di devozioni, di risposte percepibili, la reazione sia solo quella di uno sdegnato “noblesse oblige”: non è questa la vera spiritualità monastica. Ma che ce ne facciamo dei nostri tesori chiusi nei nostri forzieri?

Non si potrebbe riprovare, con l’antica ricetta che san Benedetto applica a tutti i mali: un po’ di umiltà?

La piccola e grandissima figura di un semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore ci richiami, operai dell’ultima ora, al lavoro: fino a che c’è vita e storia, è ancora possibile

Monica della Volpe

OCSO

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Pubblicato il Riflessioni, Varie

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