La parola che ci risuona dentro in questi giorni di bufera, di esondazioni di fiumi, fra le celebrazioni dei santi e quelle dei defunti, è: guerra. Le analisi della situazione mondiale, delle cause, sono tante, tutte contengono qualcosa di vero, nessuna può dare risposte complete. Nei nostri monasteri si prega, si cerca di guardare il cielo, si cerca di interpretare i segni sulla terra. Si partecipa, sia pur nella pace della fede, dell’angoscia comune; insieme ci si interroga.
Molte persone vengono al monastero cercando una parola, un segno, una speranza. Ci sentiamo in comunione con tutti questi fratelli e sorelle. Per questo ci piace raccogliere e riproporre la riflessione di un amico, un cristiano, padre di famiglia, lavoratore, che ha intravvisto ed evidenziato per noi un piccolo granello di senape, da cui può germogliare pace nuova.
La guerra ed io
lettera da un amico
Carissimi amici, abbiamo visto tutti come la mattina del 7 Ottobre, un imprevisto ha squassato la serenità di un giorno che per tanti era di riposo e per gli ebrei di preghiera.
Ancora Caino può camminare per i nostri paesi, urlare sulle nostre piazze, ancora è disposto ad uccidere per vendicare quella che sente come ingiustizia.
Tutto quello che credevamo fosse definitivamente rifiutato dall’uomo progredito che celebra come inaccettabili le violenze degli uomini che ci hanno preceduto, che ha isolato negli angoli bui della storia le loro feroci espressioni, si ripresenta oggi come il metodo ordinario nelle relazioni tra le persone e nelle piazze traboccanti rancore ed odio, che ne rivendicano il diritto.
In questo ottobre pieno di sangue innocente, in questo tempo segnato da conflitti che sembravano impossibili, in questo tempo in cui il mondo rischia di diventare una palla infuocata, incandescente, che cosa sta accadendo e perché continua ad accadere?
Qual è la ragionevolezza di ciò che vediamo e non solo in televisione?
L’orrore che in tanti sentiamo, che cosa ci chiede?
Come stare davanti a questa circostanza che sentiamo così vicina, che credo lo sarà sempre di più e che come “ogni circostanza è comunque fattore essenziale e non secondaria della nostra vocazione, che cosa ci chiede?”
Domenica 8 Ottobre, ancora stordito per ciò che è capace di fare l’uomo, ogni uomo, leggo la lettura del giorno che è una parte della lettera ai Filippesi; San Paolo scrive:
” Non angustiatevi per nulla, ma in ogni necessità esponete a Dio le vostre richieste, con preghiere, suppliche e ringraziamenti e la pace di Dio, che sorpassa ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù.”
L’uomo è richiamato a vivere il proprio desiderio come domanda, come mendicanza, come richiesta di compimento, ma il mio cuore e i miei pensieri in questo momento cosa chiedono?
L’uomo, da solo, non saprebbe cosa domandare, sarebbe confuso ed ingannato dalla Babele delle sue esigenze, dalla confusione prodotta dai mille condizionamenti che la sua natura esposta ad ogni vento, inevitabilmente gli fa sentire in ogni momento diverse e spesso in contraddizione con quelle degli altri uomini.
Sintetizzando la domanda è: che senso ha la mia piccola presenza in questo tempo, chi sono io e perché mi è dato da vivere questa situazione che agita il mondo e che certamente non posso risolvere io? (…)
La morte che ciascuno può generare non è sempre quella fisica, di una persona.
Per morte intendo il venir meno della relazione con l’altra persona, il venir meno della possibilità intravista, pensata, immaginata, desiderata e tentata in quella relazione, come possibilità di compimento delle attese originali del mio cuore e del cuore dell’altro.
È constatare che il vero, il bello, il giusto, l’amore che tutti desideriamo, non siamo noi capaci di realizzarlo, non sappiamo come realizzarlo, siamo capaci di desiderare, magari pretendere ma difficilmente di domandare, di mendicare ciò per cui siamo fatti.
Quello che San Paolo descrive nella lettera ai Romani “c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio” rischia di avere conseguenze devastanti nelle relazioni tra le persone, ad ogni livello.
Rifiutando l’origine comune, si rifiuta la comune identità e questa affermata, pretesa, diversità ontologica dell’altro, diventa l’impossibilità del legame con l’altro, la propria autonomia come espressione di libertà, le proprie ragioni strumento di potere e di diritti sull’altro.
Rifiutando la propria natura e con essa la legge che mi ha originato e mi anima strutturalmente, con ciò rifiuto il vero me stesso, sostituendolo con un “io di plastica”, fatto a immagine e somiglianza della cultura dominante. Rifiuto il tempo e le condizioni in cui vivo (…)
Da secoli siamo avviati su questa deriva che si esprime sempre più come affermazione astratta di valori come pace, giustizia, accoglienza, solidarietà, libertà ecc….
Valori che sono affermati da tutti, ma che quasi nessuno riesce a incarnare, a vivere, a documentare come esperienza possibile in atto, tutto è rimandato ad un futuro migliore, ridotto a promessa per un io che invece vive nel presente.
La storia da un certo punto di vista è il cimitero dei tentativi dell’uomo di realizzare ciò che percepisce come bene supremo per sé e per la realtà di cui si considera parte.
Nonostante tutto questo, continuiamo a domandare che un qualcuno fuori di noi, una organizzazione, o un qualunque luogo recintato ci separi dagli urti negativi, che ci assicuri ciò che attendiamo, o almeno lo riconosca come diritto meritevole di attenzione fino alla piena risposta. (…)
Allora per cosa deve decidere la mia libertà dentro ciò che sta accadendo?
Quale atteggiamento o posizione esprime pienamente la mia umanità?
(…)
Non sta solo a noi individuare la soluzione ai problemi che angosciano il mondo. Siamo chiamati a vivere il nostro percorso di conoscenza, di giudizio e di verifica della sua corrispondenza alle attese del nostro desiderio ultimo, dentro le circostanze quotidiane. Siamo chiamati a riconoscere il volto dei testimoni che in questo percorso ci accompagnano e che sono il Suo accadere, l’avvenimento che cambia la vita e la storia. (…)
Tutto questo, su cui propongo a ciascuno di dare il giudizio che crede più opportuno, mi ha portato a focalizzare l’attenzione sull’unico fatto accaduto (da me osservato) in questo primo mese di guerra tra Hamas ed Israele, che è stato veramente un atto di pace, in cui si è affermato qualcosa di più forte dell’odio ed a cui anche i terroristi si sono piegati: la liberazione delle due signore Israeliane anziane, prima prese prigioniere da Hamas e poi rilasciate senza alcuna condizione. Queste signore prima della guerra si preoccupavano di far curare in Israele i palestinesi che ne avevano bisogno, vivevano la carità, vivevano il dono gratuito di un poco del loro tempo e delle loro residue energie. Sono state le uniche che hanno attraverso la loro testimonianza del valore originale dell’altra persona, magari diversa da loro, che hanno obbligato anche a feroci assassini a compiere un atto di misericordia e con ciò l’affermarsi del disegno originale che Dio Padre vuole realizzare per ogni uomo, oltre ogni nostra capacità, dentro ogni circostanza.
È un granello di senape ma è l’unica cosa che ho visto in questo vulcano di odio che è ogni guerra e che sento di desiderare per me e per ogni uomo, l’unica forma di umanità che desidero incontrare e assecondare.
Tante domande restano aperte, ciascuno secondo le proprie capacità è chiamato a rispondere, ora però è più chiara la risposta attesa e cresce la consapevolezza che nel carisma che ci è donato è il metodo da seguire fino al pieno compimento dell’opera buona che il Padre ha iniziato in noi.
Enrico Romoli
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