Intervista di madre Monica della Volpe a mons. Massimo Camisasca.
Presentazione del libro: La luce che attraversa il tempo
Domanda Monsignor Massimo, noi parliamo spesso di rinnovare o rivitalizzare la vita monastica; ci stiamo convincendo che la vera necessità sia quella di una riforma, al cuore della riforma nella Chiesa. Ci sembra l’argomento del suo ultimo libro, La luce che attraversa il tempo. Ci vuole dire come nasce questo suo libro?
Risposta La luce che attraversa il tempo l’ho scritto prima di diventare vescovo e poi messo in un cassetto per 12 anni fino alla pubblicazione. Da sempre il tema della Riforma nella Chiesa era stata una mia attenzione. Già nel 1970 avevo fatto pubblicare dalla Jaca book Vera e falsa riforma nella Chiesa, di I. Congar e avevo fatto una prefazione. Mi era rimasto dentro questo tema che mi ha accompagnato lungo l’arco della mia vita. È l’espressione del mio amore per la Chiesa. Sempre sulla Chiesa nel 2017 uscì un altro mio libro, La straniera. La Chiesa da sempre è stata la mia sposa, la mia amata, la mia amante. E questo mio ultimo testo vuole essere un cantico d’amore. Così l’ho concepito, così l’ho voluto, così l’ho iniziato a scrivere nel 2010, raccogliendo un po’ l’esperienza della mia vita. Una volta pronto, mi fu però suggerito di non mandarlo subito in stampa. In quel momento diventavo vescovo e avevo ben altre preoccupazioni. Nell’ultimo periodo del mio episcopato l’ho riscritto daccapo, correggendo alcune parti e integrandone altre con i dieci anni di esperienza alla guida della diocesi di Reggio Emilia-Guastalla.
D. Qual è l’idea centrale di questo libro?
R. L’idea centrale è che per parlare della Chiesa bisogna sapere cos’è la Chiesa. Dico questo perché la stragrande maggioranza degli opinionisti, degli uomini e delle donne della comunicazione, parlano della Chiesa senza sapere cos’è la Chiesa. Ma la colpa non è loro. È nostra, perché noi non facciamo conoscere la Chiesa, o facciamo troppo poco per far conoscere la Chiesa, per contrastare una visione ridotta della Chiesa.
D. Che cosa intende per visione ridotta della Chiesa?
R. Che cos’è la Chiesa per gli strumenti di comunicazione? Il Papa. Se chiedi per la strada chi è la Chiesa ti rispondono: il Papa. I più specializzati, abitatori delle sacrestie, al massimo diranno: i vescovi e i preti, le suore. Stop! Vuol dire che la Chiesa non esiste più nella coscienza del popolo, o esiste in una maniera molto ridotta.
Oggi c’è una separazione tra Chiesa e vita: non si sa più cos’è la Chiesa. Vi è, così, l’urgente necessità della riscoperta del Battesimo. E questo è anche uno dei primi portanti decisivi della vita monastica, perché la vita monastica è la vita battesimale. La vita monastica non aggiunge nulla al Battesimo: essa è la sua esplosione.
D. Può spiegarci meglio questi concetti?
R. Che cos’è il Battesimo? La scelta che Dio fa dei peccatori, per innestarli nella vita di suo Figlio e così renderli santi. Questo è il Mistero della Chiesa. La Chiesa è fatta di peccatori chiamati a partecipare alla vita del Figlio. Se non si coglie questo, non si coglie la vita della Chiesa. La vita della Chiesa è un pellegrinaggio dal peccato alla grazia, pellegrinaggio che è suscitato dalla grazia. È in fondo proprio questo che rende difficile, all’occhio moralista dell’uomo di oggi, entrare nel mistero della Chiesa.
D. Allora che cosa vuole dire riforma nella Chiesa?
R. La riforma innanzitutto è una necessità. Cos’è, infatti, questo passaggio dal peccato alla grazia? È entrare nella Sua forma: non assumere lo schema del mondo, ma entrare nella forma di Cristo (cfr. Rom 12,2). Allora la Chiesa continuamente deve guardare a Lui per assumere la sua forma di vita, per essere inondata dalla sua luce, dalle sue parole, dalla sua umanità.
D. Ma la Chiesa deve guardare avanti o deve guardare indietro?
R. Deve guardare avanti e indietro e questa è la particolarità della riforma ecclesiale. Deve guardare indietro, ma poi vedremo che questa è un’espressione ambigua, perché essa è chiamata a salvare la storicità dell’evento fondativo. Questa forma che la Chiesa, che il popolo è chiamato a vivere, è una forma che storicamente è già stata data. Non c’è bisogno di inventarla. Questo è molto importante. Noi pensiamo di dover inventare o reinventare la Chiesa: il prete deve inventare il Messale, il fedele deve inventare come vivere, come lavorare, come stare col marito, con la moglie, il religioso deve inventare la vita religiosa, etc…
C’è, invece, qualcosa di già dato. Questo qualcosa di già dato, è un eterno nel tempo: è l’umanità di Gesù. Quindi, in un certo senso, guardare indietro vuol dire custodire la storicità dell’evento originario. Ciò che spiego nel primo capitolo del libro è che non siamo nati da una fiaba. Non c’è l’invenzione di una storia bella all’inizio. È una storia reale, bella e brutta, con tanta luce e tanto sangue. E questa storicità dell’evento originario non può essere perduta per nessuna ragione.
D. Quindi la riforma è in un certo senso guardare indietro. Le domando: perché non è soltanto guardare indietro?
R. Perché questa forma storica è contemporanea, cioè la risurrezione di Cristo rende contemporanea la forma storica dell’umanità di Gesù. Cristo è lo stesso ieri, oggi e per sempre (cfr. Eb 13,8). E qui c’è tutto il senso dei sacramenti, dell’Eucaristia. Però, detto questo non abbiamo ancora detto tutto. In un certo senso abbiamo posto le fondamenta, ma non abbiamo ancora delineato il come, perché questo evento originario non è un evento da riproporre, ma è un evento da cui lasciarsi permeare, per riviverlo creativamente. Se guardiamo alla grande famiglia nata da Benedetto, vediamo esplicitato nella storia tutto quello che stiamo dicendo. Il santo fondatore del monachesimo in Occidente non ha guardato esclusivamente al passato, ma ha dato una forma, ha espresso con la sua Regola una forma possibile dell’evento originario. Le riforme, poi, cluniacense e cistercense sono un ulteriore esempio di questo sviluppo.
D. Perché la riforma non è un tradimento dell’origine?
R. Potremmo dire che questa forma già nell’origine è pluriforme. Pensiamo ad esempio al fatto che sono stati quattro i vangeli riconosciuti come canonici, non uno; o anche che furono tre le sedi patriarcali, non una. La riforma nella Chiesa guarda all’origine, all’evento storico che non si ripeterà. Lo stesso vale per l’Eucaristia che non è la ripetizione della morte e risurrezione del Signore, ma è la ripresentazione di quell’evento. Quindi l’evento originario si ripresenta a noi in ogni tempo contemporaneo e, come l’Eucaristia, chiede di essere assimilato per assimilarci a Cristo. Allo stesso tempo Cristo nella Chiesa chiede ad ogni persona, comunità ed epoca di esprimere la forma che risponde all’attesa dell’uomo in quel momento. E questa è la complessità della riforma.
D. Eppure tradire l’origine, sbagliare, è facile.
R. L’uomo può sbagliare in tanti modi, ma possiamo raccogliere questi errori in due categorie. La prima è quella della fissità, secondo la quale non si deve cambiar nulla. Così si tradisce l’origine stessa del cristianesimo perché in essa vi è la necessità di presentare l’unico evento in forme diverse. Qui sta tutto il tema del rapporto con le culture. La seconda, poi, è la posizione che oggi è certamente prioritaria: la Chiesa deve rispondere alle attese del mondo. Queste due categorie sono entrambe originate dalla stessa radice che è l’incomprensione della fede. E questo accade quando Cristo non è più la ragione della nostra speranza.
Ecco perché sto lavorando adesso sulla vita di madre Cristiana Piccardo. Non per una particolare fissazione sulla sua persona, ma perché ritengo seriamente Vitorchiano, con tutti i limiti, un esempio molto significativo di riforma riuscita.
D. In che senso?
R. Nel senso di una riforma che ha saputo correre su questo crinale pericoloso della storia che è fedeltà a Cristo e fedeltà alle persone. Noi non possiamo spezzare mai i due comandamenti che Gesù ci ha lasciato: ama Dio con tutto il cuore e ama il prossimo come te stesso (cfr. Mc 12,30-31). Sono un unico comandamento: l’uno spiega e rafforza l’altro. Non posso amare l’uomo se a lui non porto Dio e il Dio che devo portare all’uomo è il Dio di Gesù Cristo, ma non posso portare il Dio di Gesù Cristo se non ho passione per l’uomo. Al contrario, porterei un’idea, un’ideologia, una cultura. Questa fedeltà è così semplice e difficile allo stesso tempo. Semplice perché si tratta di correre sulla strada della grande tradizione della Chiesa e difficile perché anche la grande tradizione della Chiesa si è mossa tra un’infinità di eresie, di battaglie, di lotte, di recuperi. È la strada della riforma che, secondo me, Vitorchiano ha vissuto ed è per questo che ne voglio parlare.
D. In che modo il suo libro La luce che attraversa il tempo evidenzia tutto questo?
R. Mostrare che cosa debba essere la riforma nella Chiesa è proprio l’intento fondamentale del libro, che svolgo in una modalità soprattutto storica, ripercorrendo la storia dei papi riformatori da Pio IX a Francesco.
Nel libro sono presenti tre parti. La prima: che cos’è la riforma. La seconda: come la Chiesa, nei suoi vertici, ha pensato la riforma. La terza: la riforma nelle sue necessità e nelle sue realizzazioni, prima di tutto nel popolo di Dio, poi tra i vescovi, tra i sacerdoti, nella vita religiosa e fra i laici, alternando questi racconti con esempi storici. Questa è un po’ la struttura del libro.
La parte finale è, invece, dedicata alla santità. La Chiesa è il cammino verso la santità ed essa, una volta tolto tutto l’espetto polveroso che questa parola può evocare, è la nostra gioiosa e dura conformazione a Cristo. Lo Spirito Santo esercita, infatti, un’azione forte e soave. Il cammino verso la pienezza di noi stessi è un cammino gioioso e duro perché è un cammino in cui noi incontriamo una novità radicale. In ragione di questa novità deponiamo le cortecce vecchie e diventiamo un albero nuovo, ma questa deposizione delle cortecce vecchie richiede molto tempo.
Questo è lo schema del libro e il suo contenuto principale.
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