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Le monache cistercensi sono ritornate in Portogallo

di Fiorenza Migliari

 

Nella parte più disabitata del Portogallo, in una zona apparentemente montuosa quasi priva di segni di vita umana, bellissima nella sua dolcezza di alternanza di altipiani e colline, sta sorgendo questo luogo tutto dedicato alla preghiera.

Si capisce per quale ragione qui fioriscono ancora oggi esperienze di vita eremitica: da Porto occorrono tre buone ore di auto, percorrendo un’autostrada pressoché deserta in ambedue le direzioni, Infine si arriva al paesello di Palaçoulo dove si parla non solo il portoghese ma una lingua locale. Non c’è anima viva a cui chiedere la direzione da prendere per arrivare al monastero, finché una signora ci addita con entusiasmo la strada.

Arrivati al semplice bellissimo arco in pietra che introduce allo spazio monastico, la dimensione della semplicità è immediatamente percepibile: nell’alternanza della pietra locale alle casette che ora servono da foresteria e da abitazione alle monache, ma soprattutto nei visi di queste giovani donne laboriose e affaccendate, regine del Regno dei cieli che qui pare incombere dal cielo oscuro.

Riesco ad avere un colloquio lungo e affascinante con suor Debora, a cui posso rivolgere tante domande su tutti gli aspetti della vita contemplativa che qui si vive nell’isolamento ma con evidente comunione con la Chiesa. L’esperienza che si fa in comunità è che a tutte è chiesta la conversione personale, avere rapporti sinceri e veri in cui sperimentare di essere amati per quello che si è.

Mi spiega che per questo popolo l’esperienza mariana è sicuramente più forte che l’esperienza sacramentale: tanti riconoscono in Fatima un’attrattiva, nostra Signora è come una madre a cui dire le proprie pene, pur magari non avendo un’esperienza di Chiesa. Di fatto ci racconterà poi un sacerdote che qui celebra la messa quotidiana che egli è parroco di 17 parrocchie e in ognuna a turno riesce a celebrare ogni 15 giorni la messa per una manciata di fedeli.

Questo aspetto, secondo suor Debora, evidenzia la grande specificità della chiamata monastica: far vedere come la vita cristiana abbraccia tutto, ma partendo proprio dalla vita sacramentale come un oggettivo. Anche la vita fraterna della comunità monastica è proprio quella della prima comunità di Gerusalemme. Qui ogni cristiano va nella propria parrocchia, va a messa quando si celebra la messa nel suo paesino, o alla celebrazione del Santo del proprio paese; eppure sono persone che testimoniano una radicalità nella adesione al Signore, come Pedro l’architetto, o il ristoratore del paese e sua moglie e le figlie: vengono qui per la ricerca di un rapporto col Signore e di amicizia, e si vede la sete che hanno di questo rapporto vero. Questo ti fa cogliere che è lo stesso desiderio che hai tu e che quindi siamo della stessa pasta.

Suor Debora accompagna gli operai e talvolta ne vede uno che indossa uno dei rosari fatti dalle monache: quando gli ha chiesto perché lo indossa sempre, lui ha risposto che è tutto orgoglioso di partecipare a questa opera. Poi aggiunge semplicemente la sua curiosità buona: “siamo 450 anime in questo paesello e siamo pieni di stupore perché da qui tutti scappano e invece voi siete venute proprio qui, da fuori”. Gli abitanti non sanno che cosa sia un monastero e la vita monastica, sono ignoranti della storia cistercense, che tutt’al più è una cosa del passato come il sito di Alcobaça.

Suor Debora continua raccontando alcuni passi della propria esperienza personale, ad esempio ricorda un momento dei primi tempi di permanenza: le monache cantavano le vigilie al buio, “ti accorgi di essere un puntino sperduto in un mondo disabitato, ma in quel momento ho preso coscienza del valore dell’ufficio divino, una voce che loda a nome di tutta l’umanità… Non c’era nessuno che apprezzava o che fosse presente qui come ospite, ma siamo davvero una ‘povera voce’ per tutta l’umanità.”

Alla richiesta se ha incontrato particolari difficoltà, risponde che le difficoltà sono quelle della vita di tutti, oggi: la pandemia, la crisi economica, le difficoltà concrete della costruzione del monastero. In realtà la sfida più grande è quella della costruzione della comunità, perché coincide con il cambiamento del cuore. Per questo è buono questo tempo di attesa per l’edificazione delle mura del monastero, perché è il tempo buono per ciascuna per mettere le radici più in profondità non solo in questa terra, ma in questi volti dati: il tempo della costruzione dell’edificio serve anche a costruire quest’esperienza.

Ci sono anche sorprese, legate talvolta agli incontri con le persone, sorprese che fa il Signore per farti capire che non sei sola. Ma la sorpresa di tutti i giorni è quella della perseveranza, senza fare bilanci, e consiste nella grazia che è data dall’ aderire ogni giorno al piccolo pezzetto che ci è affidato, ogni giorno si fa il proprio sacrificio, la propria lotta, il proprio lavoro, e si scopre che c’è qualcosa che nonostante noi avanza. “Questa è la porta del Cielo”, ha esclamato una signora uscendo dalla chiesa dopo l’ufficio delle ore a cui aveva partecipato: aveva colto pienamente il senso della liturgia! In fondo, vedono il Vangelo incarnato in una comunità, come quella di Gerusalemme: un piccolo pezzetto di mondo trasformato da Cristo; ed è questo che devono vedere, perché solo questo può essere il punto di novità.

La comunità, proveniente da Vitorchiano (OCSO), ormai si è stabilita da due anni. Essere in Portogallo è lo svolgersi di una storia che ha condotto il gruppo attraverso il sì della comunità di origine alle richieste della Chiesa. Portogallo è terra di Europa che ha bisogno di riscoprire le sue radici cristiane, così come il nostro mondo occidentale si è dimenticato della storia cristiana che lo ha costituito. Però a livello del popolo l’esperienza della clausura monastica è guardata con rispetto, qui vige un rispetto della figura religiosa. Solitamente l’idea è che fare la suora dovrebbe essere uno spazio di servizio, come una suora di ospedale, oppure che bisogna cercare spazi per star bene con se stessi, tipo new age… Le sorelle tuttavia osservano un interesse e una domanda che accomuna tutti i giovani del mondo. E suor Debora spiega: “Alla ragazza che si interroga sul proprio destino dico che i desideri grandi che ha nel cuore hanno una risposta, le cose grandi che muovono il cuore non devono essere soffocate, sono la parola che Qualcuno sta dicendo, non deve smettere di interrogarsi. La vita monastica è la risposta vera che oltrepassa il desiderio la cui risposta uno si immagina a propria somiglianza, secondo un proprio pensiero, invece il Signore vuol dare una misura più abbondante …”.

Quando chiedo a suor Debora come si pone di fronte a questo futuro inquietante per l’evolversi del mondo, per l’apparente prevalere del male nel progetto dei potenti, mi risponde con due parole, che sa essere quelle vere: abbandono nel Signore, abbandono a una Comunione dentro rapporti concreti.

L’esperienza della difficoltà ci soffoca se si cerca di affrontarla con le proprie forze. Dentro la comunità si fa esperienza di una comunione in cui i pesi diventano più lievi, e ti accorgi che l’altra può vedere una speranza che tu non riesci a vedere.

Oltre a suor Debora, ho l’occasione di incontrare suor Annunciata che fa parte del secondo gruppo che è arrivato qui. Come un fiume in piena, mi racconta la sua esperienza e le riflessioni che hanno arricchito gli eventi di vita di cui è stata protagonista.

 Quando le chiedo in cosa consiste la loro missione, lo scopo per cui sono qui, mi risponde: “offro la mia vita per”, non è sempre formalizzato, anzi solitamente si dipana nello stesso modo di una mamma di famiglia che pulisce la casa, perché è per il Signore e per il mondo, è una cosa sola, E alla fine ti accorgi che il male del mondo è lo stesso male hai dentro tu”.

Tanta gente di qui è quasi intimidita da noi, gente povera ma affezionata alla nostra presenza: ce lo ha testimoniato il fatto commovente che ciascuna famiglia ha dato un pezzetto di terra per delle straniere, giunte qui attraverso una bellissima strada per ripopolare questo luogo, una strada che invece negli anni era servita solo per andarsene. È impressionante l’emigrazione costante da questa zona e la fuga dei giovani dal Portogallo più rurale. I lavoratori sono contenti di lavorare per quest’opera, non sanno niente della storia monastica ma sono 400 anni che questa terra è segnata dai cistercensi: di fatto per vedere come era la Clairvaux di San Bernardo, oggi uno va a Alcobaça dove c’era un’enorme presenza cistercense, quando il re Alfonso I diede queste terre ai cistercensi perché le lavorassero come aveva visto intorno ai monasteri in Francia.

Le ripeto la domanda: come far fronte al male del mondo? Suor Annunciata mi risponde semplicemente: “Nel quotidiano. Star davanti al Padre eterno, con la coscienza che il male c’è, esiste davvero, ma con la certezza che Cristo vince e ha vinto.

La mangiatoia e la croce sono lo stesso mistero, è tutto nelle mani di Dio, come suo è il fatto di averci chiamato qua, di stare costruendo questo edificio e sperare di riempire questa casa, di farci essere segno non perché siamo brave ma perché siamo Sue”.

 

 

 

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Pubblicato il Cose nuove e cose antiche, Monasteri

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