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L’interpretazione patristico-monastica della Sacra Scrittura

L’interpretazione patristico-monastica della Sacra Scrittura

come chiave per la riforma della Chiesa e del monachesimo

di Suor Veronica Pellegatta, OCSO

 

RELATIVISMO NELL’ESEGESI – RITORNO ALLA DEI VERBUM

 

Cosa significa per noi oggi essere figlie e discepole di san Bernardo in questo nostro tempo che, in campo esegetico, ha conosciuto certamente un enorme sviluppo grazie al metodo storico-critico e, nonostante questo, sembra non capire più la Scrittura e non conoscerla più come la conoscevano i nostri Padri che, ritenendola la Parola più preziosa tra mille e mille, la custodivano nella memoria? Come rispondere alle riduzioni dell’approccio alla Sacra Scrittura anche di monaci professori che paiono dimenticare mettendo da parte la Tradizione? Come imparare a fare la lectio senza che sia un “trastullo sentimentale” che col tempo si abbandona?

Riferimento magisteriale obbligato sarebbe l’Esortazione apostolica post-sinodale Verbum Domini del 2010. La VD dedica un importante capitolo all’ermeneutica della Sacra Scrittura, e tutta la seconda parte alla vita della Parola nella Chiesa. Vorrei tuttavia far notare che l’insegnamento del Magistero sulla Sacra Scrittura dal Concilio Vaticano I in poi, a cui VD fa riferimento, è abbondante, chiarissimo e straordinario, e meriterebbe di essere conosciuto. Ne facciamo solo un elenco:

Concilio Vaticano I – 1870 – Costituzione dogmatica DEI FILIUS sulla fede cattolica, che ha una parte sulla Rivelazione;

Leone XIII – 1893 – Enciclica PROVIDENTISSIMUS DEUS, la prima dedicata interamente alla Sacra Scrittura e agli studi biblici, che incoraggia gli esegeti cattolici a prendere in considerazione i metodi scientifici di lettura del testo e insieme dà i criteri per utilizzarli;

Leone XIII – 1902 – Lettera Apostolica VIGILANTIAE con cui venne istituita la Pontificia Commissione Biblica che collaborerà sempre più col Papa al chiarimento della dottrina sulla Scrittura, con molti documenti;

(Pio X nel 1907 assegnò ai Benedettini la revisione della Vulgata e nel 1909 istituì il Pontificio Istituto Biblico);

Benedetto XV – 1920 – Enciclica SPIRITUS PARACLITUS sullo studio della Sacra Scrittura;

Pio XII – 1943 – Enciclica DIVINO AFFLANTE SPIRITU, nel cinquantesimo della Providentissimus Deus, che per la prima volta parla esplicitamente del metodo storico-critico e lo colloca all’interno dell’ermeneutica cattolica con una chiarezza di giudizio straordinaria, contro la reazione mistico-spirituale di chi vedeva in tale metodo solo un pericolo;

Pio XII – 1950 – Nell’Enciclica HUMANI GENERIS, su alcune false opinioni sulla dottrina cattolica, dedica un capitolo alla Scrittura chiarendo gli errori che si rischiano perseguendo degli studi critici senza permanere nell’unità della fede della Chiesa;

Concilio Vaticano II – 1965 – Costituzione dogmatica DEI VERBUM sulla Divina rivelazione;

Nel 1993 e nel 2001 abbiamo 2 grandi documenti della Pontificia Commissione Biblica (firmati da Ratzinger): L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa e Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana.

C’è, in conclusione, un mirabile discorso di Giovanni Paolo II del 1993, in cui il Papa offrì una sintesi autorevole di tutto il Magistero sulla Scrittura e sul lavoro dell’esegesi fino a quel momento. Discorso pronunciato per il centenario della Providentissimus Deus e il cinquantesimo della Divino Afflante Spiritu: la sintesi tra le due è operata alla luce della Dei Verbum.

Ritrovare nel Magistero una chiarezza cristallina a riguardo di tutti i problemi di interpretazione della Scrittura e avere la sensazione che poco o nulla sia conosciuto e tenuto in considerazione, non ci deve deprimere ma piuttosto spingerci a porre la stessa domanda che si poneva Ratzinger in un capitolo del libro Fede, verità e tolleranza. Nel primo capitolo della seconda parte, fa una delle sue mirabili revisioni delle ideologie del 1900, per giungere a spiegare come si sia giunti al Relativismo, anche in Teologia, che egli definisce “il problema centrale per la fede oggi”. Dopo aver presentato la genesi e le caratteristiche di Teologia della liberazione, Teologia pluralista delle religioni, religione relativista e New Age, egli giunge a domandarsi come mai la Teologia classica si sia trovata così debole e impreparata di fronte a questa evoluzione delle idee, tale da non risultare più interessante né credibile ed essere messa da parte. I punti deboli secondo Ratzinger sono stati due, connessi tra loro: l’esegesi della Scrittura e il rapporto fede-ragione. Fa un discorso complesso che non ha senso tentare di riassumere, ma quel che mi ha colpita è che egli imputi al modo di concepire e praticare l’esegesi una buona parte della responsabilità della crisi della fede a cui assistiamo.

Dice che la nostra epoca è ancora profondamente condizionata dalla teoria kantiana della conoscenza. Kant: 1700, illuminismo tedesco, anticipatore e in un certo senso padre del pensiero idealista, che ha portato al marxismo, il quale dopo il crollo del 1989 ha mostrato tutta la sua inadeguatezza come risposta al problema dell’uomo e del mondo. Da quel momento si sono in effetti sviluppate filosofie e teologie che sembravano aver abbandonato il razionalismo illuminista ma che in realtà portano dentro di sé il baco della stessa teoria della conoscenza. In sintesi Kant avrebbe dimostrato inconfutabilmente che l’assoluto non può essere conosciuto nella storia; la nostra ragione non può conoscere ciò che è metafisico che dunque va lasciato da parte. Questo modo di pensare si fonda sulla pretesa autonomia della ragione e cioè sulla persuasione che la ragione possa fare il suo cammino nella realtà a sua portata e lasciar perdere ciò che è metafisico senza problemi[1]. Ma in realtà non è così e la crisi del nostro mondo disperato lo dimostra. Tolto ciò che è “oltre” tutto perde di senso. In questa direzione Ratzinger segnala come secondo punto debole il rapporto fede-ragione.

Le conseguenze sulla fede e sull’esegesi di questo percorso che dal razionalismo entusiasta dell’epoca moderna è giunto al nichilismo più disperato, concludendo che la Verità non solo non è conoscibile ma non esiste proprio, sono state enormi e oggi ne vediamo tutti i risvolti sulla vita morale. Sempre più ci si è resi conto di quanto l’interpretazione della Scrittura dipenda dal sistema filosofico che si abbraccia, e del fatto che, se non si opera una critica accurata, ci si ritrova molto lontani dalla verità. Ratzinger analizza in modo particolare il percorso di due esegeti tedeschi suoi contemporanei che, negli anni ‘70-’80, paradossalmente, si appellarono proprio alle indagini esegetiche per giustificare la loro revoca della fede in Cristo: l’esegesi avrebbe provato che Gesù non ha mai pensato di essere Figlio di Dio ma che solo in seguito i suoi seguaci lo avrebbero reso tale.

Se per alcuni esegeti il risultato conclusivo dello studio scientifico della Scrittura è stato quello di abbandonare la fede, questo non significa che tali studi siano errati in sé ma che occorra seriamente elaborarne la critica. Ratzinger stesso nel suo lavoro di esegeta (il cui capolavoro sono i 3 volumi Gesù di Nazaret) dice e ripete che il metodo storico-critico è ormai uno strumento irrinunciabile per affrontare lo studio di qualsiasi testo antico ma, nell’approccio alla Sacra Scrittura, necessita di essere rivisto criticamente cioè che si sia ben consapevoli dei suoi limiti.

La Dei Verbum affrontando il problema dell’interpretazione della Scrittura, alla luce del Magistero precedente, dice che, essendo la Parola di Dio espressa per mezzo di uomini alla maniera umana, essa deve sottoporsi all’analisi storico-critica per essere ben capita nel suo senso letterale (cosa gli autori hanno voluto dire), facendo attenzione a tre elementi essenziali: i generi letterari (cronaca, storia, poesia, codice legislativo, oracolo profetico ecc…); il contesto storico a cui il testo si riferisce; il contesto vitale che ha dato origine a una tradizione orale e successivamente alla formazione dello scritto.

I limiti del metodo storico-critico invece sono: primo, per sua propria natura esso deve lasciare la parola nel passato. Non sa e non può sapere cosa voglia dire che la Parola divina è Parola potente, che opera nel presente per il compimento del Disegno di Dio nella storia, non come la parola degli uomini[2]. Il metodo storico-critico non può tener conto di questo perché la studia in quanto parola umana e dunque solo in uno dei suoi aspetti. Ed è così già detto quale sia il secondo limite: considerando le parole umane vede i singoli Libri della Scrittura nel loro momento storico e li suddivide secondo le loro fonti; così l’unità di tutti questi scritti non gli risulta come dato storico. È inevitabile che sia così, proprio per il processo di formazione della Scrittura.

Se dunque le conquiste di duecento anni di lettura storico-critica della Scrittura hanno offerto all’esegesi una quantità di informazioni utilissime, che san Bernardo non aveva, tuttavia al contempo si è persa la visione unitaria che i Padri avevano per la fede in Cristo: a bilancio fatto la perdita sembrerebbe più pesante del guadagno.

Il Concilio Vaticano II e la Dei Verbum non hanno certo creato questo stato di cose, come alcuni sostengono, ma nemmeno sono stati in grado di impedirlo. La Costituzione conciliare cercava di stabilire un equilibrio tra l’analisi storica e il carattere teologico dell’esegesi cattolica, di cui chiariva il presupposto fondamentale e cioè l’unità della Scrittura. Ad esso corrisponde, come metodo, l’analogia della fede cioè la comprensione dei testi a partire dall’insieme. Per leggere così la Scrittura è necessario farlo all’interno del popolo che ne è il depositario e il portatore nella storia, cioè la Chiesa, e assumendo come chiave di interpretazione la sua fede. Questo significa riconoscere che spetta al Magistero la parola decisiva. Eppure c’è stato chi ha recepito della Dei Verbum solo la valorizzazione dello studio scientifico e si è buttato dietro le spalle il discorso teologico che essa fa.

Ratzinger diceva che una rilettura attenta della Dei Verbum permetterebbe di trovare gli elementi essenziali per una sintesi tra il metodo storico (liberato da presupposti filosofici ormai veramente superati) e l’esegesi teologica (imparata dai Padri e sempre portata avanti almeno da qualcuno nella Chiesa). Non si tratta ormai di un semplice ritorno al Medio Evo e ai Padri della Chiesa per contrapporli allo spirito dell’epoca moderna (questa posizione rischia solo il fondamentalismo). Ma nemmeno di buttare via il lavoro di intere generazioni di grandi credenti di tutti i tempi etichettandole come “allegoriche”, “precritiche”, “prescientifiche” oppure “affettive” (nel caso di Bernardo), e, senza quasi accorgersene, fare come se la storia del pensiero avesse preso seriamente inizio soltanto con Kant.

_________________

[1] Queste convinzioni pescano ancora prima nel Nominalismo di Ockham (1300) di cui sappiamo essere stata imbevuta la formazione filosofica di Martin Lutero (1500).

[2] “Il Vangelo è potenza di Dio per chiunque crede” (Rm 1,16)

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Pubblicato il Riflessioni

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