Una interpretazione della vita benedettina donata al nostro tempo
Dopo la bella pagina carismatica dell’Agostiniana madre Alessandra Macajone, che ci riportava a un afflato fortemente contemplativo e patristico della vita monastica, quale poteva essere proposto ai visitatori del monastero solo una quarantina d’anni fa – ma sembra tanto tempo fa – ascoltiamo questa riflessione di una monaca cistercense, il cui titolo originario era: “La nostra eredità”. Ci sembra che mostri bene la via attraverso la quale una giovane donna d’oggi riesca ad entrare in questa selva contemplativa che sembra diventare sempre più remota, sempre più inaccessibile al nostro vivere. Le chiavi sono sempre quelle del linguaggio antropologico, ieri più comprensibile, oggi più problematico: un’esperienza questa volta non tanto nuziale quanto filiale. Si parla dell’appartenenza a un monastero che è una casa, “una realtà umana, fatta di volti e persone, di madri e sorelle che sono quelle che Dio ha scelto per noi”. Si parla di affidamento, di pedagogia, di obbedienza…. È ancora possibile? Veronica dice di sì. Potrebbe aggiungere che non è facile per nessuno, ci dice che è possibile per chi ci crede ancora.
Crediamo di poter individuare in qualcosa di molto semplice ad un tempo e sovrumano il fulcro di una eredità che è oggi il tesoro della filiazione di Vitorchiano: la fede. Fede in che cosa? Certamente in Colui che guida tutta la storia e che conduce provvidenzialmente il destino di ciascuno e di ogni Comunità verso la missione che gli è stata affidata da tutta l’eternità, ma anche fede in un’appartenenza che ci definisce e ci sostiene. Appartenenza a un carisma, a una storia di grazia e di mistero, ad una vocazione che ha ricevuto la benedizione di una profezia e di una fecondità. La fede è precisamente ciò che ha penetrato, sostenuto, vivificato e fecondato questo pugno di Case sparse per il mondo, che celebrano giorno dopo giorno la lode del Signore. Piccole realtà di peccato e di grazia che misteriosamente segnano un punto da nulla sulla carta geografica, ma che appartengono al Disegno di Dio. Questa è l’eredità che riceviamo dalla nostra storia: una fede indomita che penetra il cuore, fiorisce nella confessione vocale della lode di Dio in quella fedeltà radicale all’Ufficio divino e si trasforma in forza capace di resistenza e in vigore che accetta e assume la vita senza demordere.
Il cuore del metodo pedagogico di madre Cristiana possiamo esprimerlo come: il cammino della figliolanza. L’identità di figli di Dio, ricevuta nel battesimo, è il punto di partenza di tutto, che c’innesta nella Vita Trinitaria, da cui sgorga l’unica vera nostra identità umana e da cui discende l’unica vera luce sulla consistenza della comunità, sul suo senso, la sua bellezza, la sua verità. Per madre Cristiana l’essere figlia, amata e voluta, è una coscienza primordiale, messa duramente alla prova nella vita ma mai perduta, ritrovata e potentemente sviluppata in un’esperienza ecclesiale e messa a servizio della comunità monastica. Il cammino della figliolanza attraversa tutti i passaggi dell’obbedienza, che è la via maestra che conduce al Padre. Se per la grazia battesimale siamo già figli nel Figlio, per l’obbedienza entriamo nella dimensione della piena somiglianza e conformità a Cristo.
L’obbedienza appartiene alla relazione esistenziale tra il Figlio e il Padre. Per entrare al cuore di questa figliolanza, all’uomo è chiesto di acconsentire alla vita che gli viene donata. Appartenere alla Chiesa significa esattamente sentirsi chiamati per nome e sentirsi scelti per condividere fino all’estremo la vita di Colui che ci chiama. Sentirsi chiamati significa appartenere e muoversi dentro una fedeltà e un amore. Se siamo arrivate al monastero abbiamo fatto questo incontro con Colui che ci ha chiamate per nome. Quest’Uomo ci si è rivelato come lo stesso Dio fatto carne. Abbiamo potuto incontrarlo nel volto della Chiesa. Dopo questo Incontro, l’inconsistenza, la fragilità, il peccato non definiscono più la nostra identità: siamo figli, lo siamo nonostante qualunque contraddizione sperimentata e sperimentabile. L’Incontro con Lui nel monastero, rende per noi palpabile il sigillo battesimale, ci predispone ad approfondirlo e rinnovarlo nell’esperienza del perdono, nell’appartenenza alla comunità e nel cammino verso la consacrazione monastica.
Appartenere è questo: la coscienza della propria miseria, sempre più chiara nel cammino della conversione, che ci fa accettare con gratitudine la compagnia di gente povera come noi, e come noi amata dalla Misericordia, che ci rende membri umili e fedeli della nostra comunità, servi lieti nel dono di sè, che ci fa capaci di amicizia con tutti, senza calcoli selettivi o durezze dello scarto, che ci fa davvero capaci di appartenere alla meravigliosa famiglia di santi a cui Dio ci ha destinato, Chiesa nella Chiesa per l’eternità.
Questa concezione del monastero come Chiesa e di appartenenza come verità si de sé, è il cuore della formazione monastica nella quale ci è stato dato di vivere: un’obbedienza che esprime una figliolanza, che postula sempre una libertà responsabile, che non è mai autonomia orgogliosa, ma spazio di ascolto e di relazione, che accetta il dolore come passaggio alla nascita e accesso alla trasfigurazione.
Diciamo in altre parole che il punto forte di madre Cristiana è stato quello di inserire chiaramente la comunità monastica benedettina in una visione coerente, ecclesiale-trinitaria, o meglio, di far emergere e risaltare il carattere ecclesiale-trinitario già insito nella Regola; e di avere poi delineato, all’interno di questo quadro, il cammino di conversione come pedagogia all’amore, in una interpretazione insieme squisitamente cistercense e squisitamente personale. Tutto questo, tenendo sempre ben ferma la mèta finale: l’uomo conformato a Cristo, pietra fondamentale di una nuova antropologia.
Emblematica e rappresentativa dell’eredità di una storia è la vicenda della Beata M. Gabriella che, forte di una formazione famigliare ancora genuinamente cristiana, dal cuore di Madre Pia e della sua Comunità colse il valore inestimabile di un atto di abbandono a Dio che si fa carne nell’affidarsi semplice e sereno a una realtà umana, fatta di volti e persone, di madri e sorelle che sono quelle che Dio ha scelto per noi. È qui anche la ragione della vocazione ecumenica di Gabriella, che fluisce al cuore di tutte le nostre Case e in ciascuna assume un volto e un timbro caratteristico: l’affidarsi a Dio e in Lui alla Comunità che ci accoglie è un atto di fiducia così esistenziale che assume un’immensa vastità, è come abbracciare il mondo. Atto che non ha nulla di teorico ma si espande dal gesto concreto nell’ambito in cui viviamo.
Sr Veronica Pellegatta – Valserena OCSO
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