È la fede dei cristiani in Gesù Cristo morto e risorto – la mia, la tua – che consente alla Chiesa di poter continuare a vivere e ad operare.
È poi la Chiesa nella sua struttura gerarchica che predica la fede, diffonde la fede, rende sacramentalmente presente Cristo e con questo alimenta la fede e la vita della Comunità cristiana.
Però è sbagliato aspettarsi tutto passivamente dalla Chiesa gerarchica e disperarsi perché questa, nelle sue strutture, sembra talora meno presente.
Io credo in Te, Signore: tutto può ricominciare da qui, da me e da te.
Io credo in Te, Signore. Per dirlo non ho bisogno di null’altro che della mia fede. Così è per la consacrazione battesimale, così è per la vita cristiana.
Così è per la consacrazione religiosa e per la vita consacrata. Dalla nostra fede come dal costato di Cristo Dio trarrà sempre di nuovo la sua Chiesa.
Sopprimono i monasteri? Ma chi ci impedirà di offrire la nostra vita a Dio? E chi impedirà a Dio di trarre da questa offerta nuovi monasteri e nuove cattedrali?
Chi ci impedirà di donare il nostro cuore di donne, il nostro desiderio di vivere e di amare, la nostra creatività, la nostra maternità e – perché no? – perfino quella che non avrebbe più neanche il diritto di poter essere pronunciata, la nostra verginità a Dio, perché ne faccia quello che vuole?
La vita consacrata esisterà sempre. O sopprimeranno le donne?
Pubblichiamo qui l’articolo apparso su “L’Araldo di Volterra” di dom Guillaume Jedrzejczak, per questa Pasqua.
«Vide e Credette»
Commento domenica di Pasqua
Questa notte, abbiamo ascoltato un’altra versione dell’evento della Risurrezione di Gesù, nel vangelo di Matteo. C’era Maria di Magdala, ma c’erano anche le guardie e il sepolcro non era aperto. In questa versione, Giovanni non racconta l’esperienza di Maria, come faceva Matteo, ma sceglie di condividere l’esperienza vissuta dagli apostoli, e in modo particolare da «Simon Pietro e l’altro discepolo, quello che Gesù amava». Matteo si era fermato all’esperienza delle donne, Giovanni invece sceglie di raccontare il lato maschile della stessa esperienza. Le differenze fra le due versioni sono molto interessanti. Quando Matteo parla dell’esperienza delle donne, ci parla di terremoto, di angeli e di apparizione del Signore. Quando Giovanni rende conto di ciò che hanno vissuto i discepoli, sottolinea una certa rivalità, uno corre più veloce dell’altro, e anche una certa gerarchia, il discepolo prediletto arriva per primo, ma aspetta che Pietro sia arrivato, e infine un certo tipo di esperienza: non vedono niente, solo segni, e per questo il discepolo amato dal Signore, vedendo questi segni, crede.
Ogni racconto, quello di Matteo come quello di Giovanni, ha il proprio linguaggio, con le proprie insistenze, ma tutti e due traducono la stessa sorpresa, la stessa gioia, la stessa fede. Dietro le differenze e le contraddizioni, c’è difatti un’esperienza comune di stupore e di fede. In tutti e due i testi, si ritrova la testimonianza di un’esperienza che non ha bisogno di essere assolutamente simile all’altra per sembrare autentica. In un certo senso, le differenze fanno risaltare molto di più ciò che questi racconti hanno in comune: l’esperienza dell’incontro con il Risorto.
Quando succede qualcosa di straordinario o inaspettato, ogni testimone ricorda, secondo la propria sensibilità, diversi aspetti di ciò che è successo, e non ha bisogno di riprendere ciò che hanno detto gli altri o di verificare ciò che ha sperimentato per renderlo verosimile. La verità della testimonianza non dipende da fatto che tutto sia simile, ma che tutto concorre nella stessa direzione. L’accento dato da ogni testimone è piuttosto un segno di autenticità. Ognuno vede a modo suo, ma ciò che importa, è che ognuno ha visto.
L’esperienza dell’incontro con Gesù può dunque rivestire forme diverse: sia un incontro faccia a faccia con la persona di Gesù come nel vangelo di Matteo, o in un modo più velato come nel Vangelo di Giovanni in cui è l’assenza di Gesù che diventa il segno più eloquente della sua Risurrezione. E questo vale anche per noi, oggi. Ci sono quelli che, nei nostri tempi, hanno bisogno di esperienze sensibili, in cui anche gli aspetti meravigliosi sono spesso presenti. Ma ci sono anche quelli che sperimentano la potenza della presenza di Gesù nell’oscurità dei segni e nella sua assenza. Non bisogna scegliere tra l’una o l’altra. Non bisogna stabilire gerarchie o scale di valore. Queste esperienze di fede sono tutte e due un dono del Signore. Lo scopo non è di fare delle differenze, ma di dare a ciascuno secondo il proprio bisogno. E il segno più autentico della verità di queste esperienze, è soprattutto l’umiltà di chi le vive!
Dom Guglielmo
Cappellano del monastero di Valserena